Storia dell'edificio
:: Le origini
:: La fabbrica medioevale
:: L’edificio nel XVI secolo
:: Il restauro seicentesco
:: La chiesa tra XVII e XIX secolo
:: La risistemazione neoromanica

Intorno alla chiesa
:: Il cimitero, la colonna e gli antichi oratori
:: La colonna di porta Orientale
:: L'oratorio di San Romano
:: L'oratorio di Santa Marta

Viaggiatore olandese, disegno del fianco della chiesa verso il Monforte
(seconda metà del XVI secolo)

Aurelio Trezzi, progetto per la nuova balaustra della cappella maggiore

M.A. Dal Re, immagine di San Babila con sulla destra, di sfondo, San Romano e sulla sinistra il cimitero e Santa Marta (c.1740)

 

Storia dell'edificio

Il complesso monumentale di San Babila, che ora comprende la chiesa con le sue opere parrocchiali, era una volta più articolato e vedeva accanto alla basilica da una parte, affacciante sul corso di porta Orientale, l’attuale corso Venezia, la cappella di Santa Marta, con un vasto spazio cimiteriale, dall’altra, verso il Monforte, la chiesa di San Romano. Quest’ultima, demolita da più di un secolo, ha lasciato aperta tra gli studiosi una discussione, ancora oggi non completamente risolta, circa una prima dedicazione, sua o di San Babila, al Concilium Sanctorum, dato fondamentale per definire l’origine della nostra chiesa.
A sintesi di tutte le ipotesi sviluppate dal XVI secolo in poi - dal Castiglioni (1555) al Giulini (1760), al Savio (1913) -, il Cattaneo, che studiò con attenta precisione tutte le fonti documentali, propende decisamente per una coincidenza della chiesa chiamata Concilium Sanctorum con San Romano, vicina, ma completamente separata da San Babila. Ad alimentare ancora qualche dubbio resta però il fatto che nel codice più antico di Beroldo, quello chiamato Beroldo vecchio, un calendario della Chiesa milanese redatto attorno al 1140, noi troviamo che la festività “omnium Sanctorum” a Milano viene celebrata in San Babila. Inoltre, alla fine del secolo successivo, il Liber Notitiae Sanctorum Mediolani di Goffredo da Bussero, che conferma la presenza in San Babila di un altare dedicato a tutti i santi, parla di una celebrazione di san Babila “ad ecclesiam concilia sanctorum aput portam orientem.”
Non potendo dunque definire con certezza l’ipotesi della duplice dedicazione, vediamo almeno con precisione, basandoci sulle fonti storiche, le origini e la data di fondazione della basilica di San Babila per guardare poi alle chiese vicine.

Le origini
Secondo un’antica tradizione, le guide di Milano amavano identificare i luoghi in cui sorsero le più importanti chiese della città con gli spazi di precedenti templi pagani. Così, anche nel caso di San Babila, per primo il Morigi nel suo Santuario della città e diocesi di Milano (1603), a proposito della chiesa, afferma: “la qual sino avanti che Christo venesse al mondo era il tempio del Sole”. Lo seguì il Villa, canonico della basilica e studioso di storia milanese, che nel 1627 ripropose tale fantasiosa ipotesi, basandosi sulla vicinanza della chiesa alla porta Orientale dove, a suo dire, “gli antichi Romani ci avevano collocato la statua del Sole”. Riprendono la notizia le maggiori guide seicentesche, dal Gualdo Priorato (1666) al Torre (1674). e nel Settecento il Latuada. Tale affermazione si ritrova perfino negli Atti della visita pastorale fatta dall’arcivescovo Federico Visconti alla basilica nel febbraio del 1683 dove si ricorda che fu edificata “super ruinis Templi Soli planetarum Principi dicati” e che addirittura fu l’apostolo Barnaba a consacrarla a Dio “anno 46 circiter” e a celebrarvi la prima messa, accettando così anche l’altra leggenda, di origine ancor più antica, che riferisce di una venuta a Milano di san Bamaba per portarvi la fede cristiana. Nel testo si parla inoltre di una porta della città “quae tunc erat proxima dicto Templo”, notizia questa fondata, benché da riferire a un’epoca più tarda, se è vero che l’ampliamento della cinta muraria romana dovuta all’imperatore Massimiano (285-305) inglobò gli spazi tra via Montenapoleone e via Durini per ricollegarsi poi all’antico tracciato in via Larga. Di conseguenza è molto probabile la presenza nei pressi di San Babila di una porta urbana, come conferma anche il Calderini, che però non può portare a sostegno della sua tesi alcun ritrovamento specifico. Comunque fu la posizione verso oriente di questa porta a far nascere in tempi molto più recenti la fantasiosa ipotesi della presenza di un tempio dedicato al Sole, cui si sarebbe in seguito sovrapposta la chiesa, visto che, come afferma sempre il Calderini, grande studioso della Milano romana, anche nel periodo paleocristiano “nessuna delle basiliche cristiane, poste alla periferia cittadina, è nata, per quanto sappiamo finora, dalla trasformazione di un edificio pagano”. I reperti di età romana nell’area si limitano infatti a tre tombe, rinvenute nel 1593, e ad alcune lapidi e pozzi provenienti dagli scavi eseguiti nel nostro secolo.

Scartata quindi l’ipotesi di una fondazione su resti pagani, è da escludere anche quella di una sua origine nei primi secoli del Cristianesimo per l’assoluta mancanza di indizi concreti. Anche il Cesa Bianchi, in occasione del rifacimento tardo ottocentesco, oltre a rimettere in luce le murature romaniche, cercò prove della sua antichità, ma, come ricorda egli stesso al Boito, “per quante indagini abbia fatte non ho trovato nessuna traccia”.
Ne è ulteriore conferma il documento visconteo del 20 novembre 1387 nel quale i parrocchiani di San Babila chiedono che per il 24 gennaio di ogni anno si fissi la celebrazione di quel santo. Nella risposta di accettazione dell’Ufficio di Provvisione si ha un’importante testimonianza, seppur tarda, circa la chiesa di San Babila e il vicino San Romano che è detto “Parochia prima, et antiquior dictae Urbis”, dedicata anche al Concilium Sanctorum. Nonostante ciò, si concede che il 24 gennaio diventi giorno “festum” e “celebrandum” di san Babila per la parrocchia e per l’intera città. Dobbiamo così giungere alla fine dell’XI secolo per avere le prime notizie della chiesa. Difatti, a differenza di San Romano, non è citata nell’elenco delle chiese visitate nelle Litanie Triduane compreso nell’Evangeliario di Busto (850-875) e nemmeno in un elenco di poco posteriore conservato in un Evangeliario della Biblioteca Ambrosiana.
La testimonianza più antica della chiesa intitolata a san Babila si trova nella Historia Mediolanensis di Landolfo Iuniore (1140 c.) dove, riferendosi a un moto popolare del 1096, si cita “clericus iste Nazarius, in ingenio acutissimus et Muricola cognominatus” che accorse “ad ecclesiam sancti Babile santique Romani, que antiquitus dicitur Concilia Sanctorum”. Leggendo questo passo non si può certo condividere la certezza del Cattaneo, che pure si può dire il massimo studioso di questo monumento, a proposito della doppia denominazione delle due chiese. Nazario, insediatosi lì, “novum habitaculum hedificavit”, frase che, sempre il Cattaneo, con un’ interpretazione forse un po’ forzata, intende come affermazione della nuova fondazione.
Tra i documenti conosciuti è invece una pergamena del 1099 la prima a nominare la chiesa di San Babila; in essa Berengario, figlio di Ambrogio, lascia alcuni beni alla chiesa. In cambio, dei sacerdoti dovranno andare in processione “da ecclesia sanctae mariae quae dicitur jemalis usque ad sanctum babillium cum canticis in annuale meo pro mercede et remedio animae meae.”
Per un caso singolare gli altri documenti di quegli anni con richiami espliciti a San Babila si riferiscono proprio a quel Nazario Muricola menzionato da Landolfo. Tra questi è importante il suo testamento, steso nel 1148, nel quale egli lascia i suoi beni “in manus et potestate presbiterorum istarum ecclesiarum sanctorum romani et babille”, la chiesa che egli fondò o rifondò e che comunque fu edificata alla fine dell’XI secolo.


La fabbrica medioevale
Questa data di costruzione è sostenuta anche dagli storici dell’architettura che esaminarono approfonditamente l’edificio, giungendo quindi per altra via ad attribuirla alla stessa epoca.
La chiesa eretta in quegli anni era formata da un particolare organismo, non consueto per il gusto romanico milanese. Il suo sviluppo iconografico consisteva infatti in una zona presbiterale absidata, seguita dall’aula a tre navate e scandita in tre campate rettangolari. In alzato la campata intermedia era conclusa da un tiburio ottagonale, mentre le altre due erano coperte da volte a botte, contraffortate all’esterno con elementi perpendicolari per il contenimento delle spinte. In tal modo la zona dei fedeli diveniva un organismo a simmetria centrale, allungato soltanto dallo stretto rettangolo del presbiterio triabsidato.
Completamente costruita in mattoni, era risolta con il linguaggio formale del romanico lombardo; all’interno i pilastri di pietra portavano le volte a crociera delle navate laterali, ma sembrano preparati per un’analoga soluzione centrale; all’esterno i contrafforti, le arcatelle a galleria e gli archetti ciechi formavano la cornice dell’abside mediana, alta come la navata maggiore. Gli archetti ciechi correvano poi a concludere in alto la nave centrale e il tiburio, dove su ogni lato si aprivano anche leggere finestre a trifora.
Se il Rivoira, per considerazioni stilistiche e per l’esame delle strutture, pensò di determinarne l’età entro il primo decennio dell’XI secolo, la datazione proposta dall’Annoni, che studiò profondamente l’edificio negli anni Cinquanta, confrontandolo con altre fabbriche coeve di area milanese, conferma l’ultimo decennio dell’XI secolo quale momento di costruzione dell’intero complesso. Ma il paragone da lui proposto tra questa chiesa e “la basilica di S. Ambrogio, di dieci anni prima all’incirca, è terribilmente sconcertante” per latrascuratezza nella composizione delle murature, dovuta forse alla fretta, o alla scarsezza dei mezzi, più che all’imperizia, vista la sapiente soluzione del tiburio ottagonale. A conferma di questo dato vanno ricordate le affermazioni del canonico G.B. Villa, che vide la fabbrica anche alla fine del Cinquecento, prima del rifacimento del Trezzi. A proposito della chiesa, nel 1627, scrive infatti che “ella è edificata tutta di rottame, cioè di pezzi di mattoni rotti, dove si vede, che non hanno que’ vecchi sparagnato a calcina, e fattura, e vi si veggono etiandio molti pezzi di lastre con iscrittioni mortorie Romanesche et altre che sono intiere .. .e ve n’erano ancora molto più, ma furono levate in occasione della refabbricatione del choro e d’altro e poi per negligenza non rimesse e sono poi andate disperse”.
Anche nella realizzazione dei pilastri si usò materiale di spoglio, recuperato alla meglio, come è emerso qualche decennio fa nel restauro del terzo pilastro, che si mostrò concavo all’interno e riempito con mattoni, rivelando così l’utilizzo del fondo di una tomba con funzione strutturale.
Oggi non rimane quasi nulla dell’edificio romanico originale a testimoniare quella fase di costruzione; ci resta però come supporto iconografico un disegno steso da un viaggiatore olandese nella seconda metà del Cinquecento. Vi è rappresentata una veduta prospettica del lato verso il Monforte con le cappelle, aggiunte in seguito alla prima costruzione, e la parte absidale. Non si vede la facciata, ma è ben rappresentato il campanile che si appoggiava al suo lato destro, anch’esso decorato ai diversi piani con arcatelle cieche e finestrelle di gusto romanico. Dagli Atti della prima visita di Carlo Borromeo alla chiesa nel 1567, precedente quindi alla risistemazione, sappiamo inoltre che la facciata aveva un solo portale d’ingresso, davanti al quale si trovava un cimitero con diversi avelli di pietra -“prout antiquitus uti solebant”, dicono gli Atti-. Un’ altra zona cimiteriale si trovava sul lato sinistro della chiesa, recintata ed estesa fino al vicino oratorio di Santa Marta, sorto proprio per la devozione ai defunti.


L’edificio nel XVI secolo
Negli anni subito dopo la sua fondazione la chiesa assunse sempre più importanza, soprattutto dopo la demolizione delle mura di Massimiano da parte di Federico Barbarossa, che mise a ferro e fuoco la città nel 1162. Venne allora eretta la nuova cinta muraria, più esterna, che inglobò buona parte delle zone dove la città si stava espandendo. Così anche San Babila divenne intra moenia e ampliò la sua area parrocchiale. Se nel 1344 le fu affiancato il già ricordato oratorio cimiteriale di San Biagio, che poi diverrà di Santa Marta, il 24 dicembre 1387, come si è già detto, a conferma del suo importante ruolo nella Chiesa milanese, venne fissato per il 24 gennaio di ogni anno il giorno celebrativo di san Babila e si decise che quella data fosse di festa per l’intera città. Sempre dagli Atti della visita pastorale del 1567 possiamo avere altre notizie sulla chiesa e sulle modificazioni che si erano stratificate nei secoli. Vi mancava il battistero, che era ancora in San Romano, mentre sul lato sinistro della cappella maggiore c’era la sagrestia, costruita alla fine del XIV secolo a spese di Marco Carelli, grande benefattore del Duomo, cui si accedeva dall’ absidiola sinistra. A sua volta questa era collegata alla casa dei sacerdoti e, attraverso un portale di pietra, a un locale della confraternita di Santa Marta. Oltre al già ricordato campanile sulla facciata, che aveva tre campane, nel tempo si era aggiunto “aliud parvum campanile de super capellam maiorem” con una sola campana. Il pavimento era di pietra. In aggiunta all’altare maggiore, posto al centro dell’abside, sulla cui parete era appesa un’ancona “pulcherrima”, gli altari in quegli anni erano sette. Due erano racchiusi nelle absidiole laterali: quello di San Giulio, disadorno, nella sinistra e quello di San Nicola e della Madonna nella destra; quest’ultimo, consacrato intorno alla metà del XIV secolo, dal 1457 era sede della Scuola di Santa Maria delle Grazie.
Percorrendo i due lati dell’aula, nella navata laterale sinistra c’erano tre altari, direttamente appoggiati al muro. “In fundo ecclesiae costructum” si trovava l’altare di San Lucio, dove si sarebbe dovuto collocare il nuovo battistero; poi un altro altare disadorno, del quale non è data la dedicazione, sistemato sotto l’organo che a sua volta poggiava su due colonne. Tra questo e l’altare successivo, dedicato a san Girolamo, anch’esso “male onrnatum”, si apriva una porticina che collegava al cimitero.
Nel lato destro, “sub prima fornice” dopo il campanile appoggiato alla fronte, si apriva la cappella con l’altare del Corpus Domini, patrocinato dalla confraternita del SS. Sacramento, eretta intorno al 1520, venne indicata nel secolo scorso come opera del Bramantino o di Cristoforo Solari. Aveva le pareti “pulcherrime pictae”, i cancelli di ferro sul davanti e ben quindici finestre tonde vetrate per la sua illuminazione: una per ogni parete della cappella, di pianta quadrata, e tre per ogni lato del tiburio soprastante. Una bellissima pala dalla ricca cornice dorata, attribuita in uno scritto di fine Cinquecento a Giovanni Crespi, era posta sopra la mensa. Proseguendo lungo la navatella destra, si incontrava “quoddam altariolum ligneum cum quadam imagine”, un piccolo altare secondario che le ordinazioni del visitatore propongono di spostare vicino alla pila dell’acqua santa all’ingresso. Subito dopo, forse in corrispondenza di quella sull’altro lato, si apriva la porta laterale verso corso Monforte, una delle poche cose rimasteci di questa sistemazione, dopo di che ci si ritrovava davanti all’abside destra.
Da questa descrizione, precisa e attenta all’attuazione di tutte le norme della nuova liturgia controriformata, non emerge quella situazione di degrado dell’edificio che invece porterà, venticinque anni più tardi a studiare una nuova e urgente sistemazione. Nel frattempo, il 27 giugno 1588, la chiesa, dopo che Hieronima Mazenta con testamento del 12 dicembre 1587 l’aveva lasciata erede universale dei suoi beni, era stata eretta in collegiata dall’ arcivescovo Gaspare Visconti.